C’era una volta un amore e c’era una volta chi lo cantava.
Siamo in Francia, nella terra dei patriarchi della lirica trovierica, persi in quel Midi che vantava i natali di un movimento collettivo impiantato sulla compartecipazione dei singoli a un’unica unità ideologica-concettuale, in grado di erigere i rudimenti per l’elaborazione formale e letteraria di quel modello che riecheggia nei secoli a venire con il leggendario termine di ”cortese”.
”Quando le giornate sono lunghe, in maggio
mi piace il dolce canto degli uccelli in lontananza
e, una volta che me ne sono allontanato,
mi rammento di un amore di lontano:
ne ho l’animo afflitto e sconfortato,
così che né canto né fiore di biancospino
mi sono più graditi del gelido inverno.”
La poesia d’amore ha una data e un nome: siamo nel Millecento quando Jaufré Rudel compone un’enigmatica canzone che confessa la sua inerme condizione di uomo. La sua vita lo tiene lontano dalla domna, quella ‘dama’, quella ‘donna di alto rango’ che egli ama con un ”amore di lontano” che germoglia solo nel ‘ricordo’ di una felicità distante e scandita dal topos del locus amoenus, un amore disilluso dal distacco che costringe il poeta a un inverno del cuore.
La sua poesia diventa manifesto poetico che esplica i caratteri basilari della canso, la canzone, quel genere destinato a tramutarsi da parole in versi a espressione privilegiata delle dinamiche della fin’amor, che è l’insieme delle regole del sentire e dell’agire dei poeti in virtù della loro passione amorosa. I testi riportano fedelmente i caratteri della relatio che lega virtuosamente il poeta-amante alla domina, amata nei termini di un servitium amoris di stampo feudale che rimandano la memoria del lettore al lessico del rapporto vassallatico.
La lontananza diventa sinonimo del desiderio di un raggiungimento, speranza di arrivo alla condivisione di un affetto da spartire con la donna, sogno di vicinanza con la ”nobile arte”. Questa è l’arte d’amare: l’arte che nobilita, l’arte che perfeziona chi desidera bramosamente di possedere senza mai poter avere, la cortesia che rende capaci di amare, che lima le convessità dell’animo e permea lo spirito di percezioni propizie.
Il ”viaggio” o ”pellegrinaggio” d’amore di Jaufré Rudel per il raggiungimento di questa meta si plasma sulla metafora della peregrinatio amoris che lega il Cristiano a Dio: la devozione dell’amante che conduce il poeta alla fonte di esaltazione interiore che i trovatori chiamano joi, corrisponde all’itinerario mistico di perfezionamento interiore che un credente deve compiere in vita per guadagnarsi la ricompensa celeste.
Il passato ci chiama alle armi. La poesia ci ordina di rivestire le nostre parole, il nostro sentire e il nostro vivere di colori che ardono di passione estroversa per gli affetti che possediamo.
Cantiamo l’attaccamento a un sentimento, l’amore per una donna, per una madre e un padre, per un’amicizia, per la bellezza che intinge la natura; amiamoci con i versi, con le canzoni, con la lontananza. Amiamoci per non morire, per non raggelare il cuore, per vivere l’estate dell’anima, per combattere gli inverni dell’odio.
Autrice dell’articolo: Carmen della Porta