Poesia verde giardino

Era uno di quei giorni in cui le andava solo di scrivere.

Era arrivata la primavera, era il 21. Proprio del mese di marzo. Le bianche margherite sorridevano in giardino e il cielo spirava allegria.

Lei era giù di morale. Assurdità con un’aria fresca e genuina che aleggiava e contraddistingueva un’anonimo lunedì, come tanti, come troppi.

Era stanca, lei. Non capiva di cosa, non capiva nulla. Ma era stanca e abbattuta e fragile e di nuovo sempre stanca.

Aveva quel che le bastava per vivere, certo. Anche per essere felice. Ma non tutti sono felici allo stesso modo, si realizzano allo stesso modo. Lei ad esempio, non era felice, mentre altri, al posto suo, sarebbero stati felici.

Aveva una casa, un uomo che l’amava, un lavoro che le portava soddisfazioni e una famiglia sconquassata. Direte: “ecco dov’è il problema..!..Nella famiglia sconquassata”, no. Non era lì il problema. La famiglia sconquassata era ormai parte di lei. Era abitutata a vivere in situazioni sconquassate.

Niente era stato normale nella sua vita, diciamocelo.

Famiglia normale?

Amicizie normali?

Amori normali?

Lei, normale?

Niente di tutto ciò.

Bhe, sorvoliamo.

Torniamo a noi, riprendendo la prima frase nera di questo foglio bianco che piano piano prende vita. Per far almeno capire cosa voglio dire, chi è lei e perche lei è cosi. Strana, direte?

No. Normale. Per lei stessa, lei stessa, era normale. Chi stabilisce la normalità? .. “Tutto è relativo”. Diceva.

Di nuovo sto divagando. Torniamo al punto.

Era PRIMAVERA e le andava solo di SCRIVERE.

Scriveva, scriveva, scriveva. Ma non arrivava mai al punto, al punto di descrivere chi era, cosa aveva, perchè proprio nel primo giorno di primavera le andava solo di scrivere.

Bhe.

Perché era fragile. E quella fragilità dovuta al ghiaccio di cui era composta la sua corazza, con l’arrivo della primavera e col sorgere di un sole che batte forte, si stava sciogliendo e frantumando e logorando. Stava lasciando senza alcuna copertura l’anima. E li erano guai. Seri e amari guai.

Per quello era giù di morale. Sentiva di essere esposta ad un mondo più grande di lei, di essere sola, anche se vicino a lei c’era molta gente, anche se troppi dicevano di amarla.

La solitudine interiore non è scaturigine del poco amore che gli altri ci dimostrano, ma semplicemente del poco amore che noi vogliamo a noi stessi.

Ecco. Lei non si amava. Non amava i suoi sbagli, la sua fottutissima impulsività che ogni dannata volta glieli faceva commettere.

Forse era ancora immatura, chissà.

La sua vita era tutta un forse. Un “forse domani mi sentirò meglio”, un “forse domani passa”, un “forse oggi mi sento bella”.

Era tutta un forse, la sua vita, era un nulla senza un forse.

Aveva capito che le cose brutte della vita, servono a fortificarti, a farti maturare, crescere, capire.

Ma quando la pronunciava a se stessa, questa frase, sembrava una frase già composta da altri e volutamente ripetuta al proprio io affinché diventasse un dogma secondo cui vivere, capendone il significato secoli dopo.

A pensarci su, era vero. Lo capì tardi, quando decise che i dogmi appaiono falsi anche se veri semplicemente quando vogliamo imporli a noi stessi. Come tutto nella vita.

Questa vita. Che buffa. Divertente, triste, spastica, altalenante, non assolutamente per uno scricciolo di attimo costante.

Lei non riusciva ad amare se stessa, dicevamo. Dicevamo bene. Dei giorni si amava troppo, credeva di essere chissà quale essere metafisico sceso in terra, altri credeva di essere chissà quale essere fisico minuto e bastardo che voleva essere dovunque tranne che sulla terra.

Lei amava, comunque. Amava i suoi ideali, i suoi modi di pensare e la vita, anche se da quel che ho fino ad ora affermato non sembrerebbe. Ma lei l’amava la vita, non credete. Anche se era stata crudele con lei, spesso. L’amava e amava il suo andamento, a volte lento e stancante e angosciante a volte veloce, scattante, furioso, travolgente, grintoso, vitale.

Quel primo giorno di primavera era insoddisfatta della vita e non riusciva a far nulla.

Leggeva e non riusciva, studiava e non riusciva, lavorava e nulla da fare. Quanto è strano l’uomo il suo carattere sconsclusionato, ribelle.

A proposito di ribelle, dicevo che amava i suoi ideali. Si. È vero. Uno di questi era la libertà, parola che è facilmente correlabile a ribelle. Le piaceva essere ribelle per la libertà, ma fino a che punto? Su questa cosa ragionava, devo dire..

La ribellione, la lotta, va giustificata, non va solo combattuta. Odiava chi si proponeva fautore della libertà indiscussa, spregiudicata, logoratrice di quella altrui e accrescitrice della propria che perde di valore, di significato, di importanza. Odiava le lotte gratuite e forse anche per questo nel primo giorno di primavera le andava solo di scrivere.

Perché non aveva più niente per cui lottare veramente. Intorno a lei dilaniava il vuoto e tutti si ribellavano, semplicemente perché dovevano, se no “si è schiavi del sistema”. Che bei paroloni, poi messi di seguito, fanno apparire chi li pronuncia, timoroso e pauroso e tanto ridicolo.

Si è schiavi del sistema, omologandosi, conformandosi e anche se si pensa che lottare sia proprio l’opposto contrario di questo, ci si sbaglia. È questo se non si lotta per un ideale, ma perché bisogna. Nulla bisogna, se non è voluto.

Vabbé questa è una lunga storia, sorvoliamo anche qui.

Era stanca dicevo. Si. Molto. Troppo.

Stufa, stanca, scocciata. Di cosa?

Della famiglia sconquassata, di lavorare o di vedere lotattori senza utopie?

Anche. Ma soprattutto ( e sottolineo) di non essere capita. Lei era lamentosa, dicevano, scocciante dicevano. Ma loro? Loro com’erano? Superficiali.

Si fermavano al sorriso che lei anteponeva ogni mattina a quel muro di vetro, alla sua fragilità.

Bhe, avrete capito com’era lei. Mi chiederete, chi era lei?

E io vi risponderò.

Ognuno di noi quando quel che abbiamo dentro è un masso gigante che il vento non trasporterà mai via, ognuno di noi quando quel che abbiamo fuori è un masso gigante che il vento non trasporterà mai via.


Autrice del racconto: Asia Tamburrini