Madre natura
Sostentami, o mia musa,
a cantar la lode della madre castissima,
di madre natura!
Alza le vele del tuo nutrimento
che è si cosa di vasto ingegno.
Madre benigna e dolce,
che d’ogni creatura hai core,
fammi udir la tua voce,
che dia coro alle mie parole.
Infiniti campi di fiori,
con alberi e frutti,
che rosseggiano,
all’aere liberi
all’uccellin suo godimento.
Quei colori del tramonto,
ove si perde il mio pensier,
tra quelle ombre infuocate
che scandiscono la fine del giorno!
All’alba la dolce sferza del primo vento
dipana la foschia della notte con il primo
fruscio d’ali di vagabondi passerotti.
E l’umida ruigiada rinfranca la ridesta terra,
tra un argenteo e un biancheggiar
che nel petto fa lena.
Guardo il mare il loro eterno brontolio,
lo schiumar delle onde,
Il sentor del suo aroma,
quel frangersi fragoroso tra scoglio
e scoglio mi rammenta che siam meno
della più piccola roccia.
Va il timido naviglio sulla distesa equorea,
ogni ora il nauta in se spera di riveder la costa.
Quei fiumi lenti, miti, quasi pigri,
s’insinuano tra lingue di terra,
e in quelle acque che paiono dormienti
s’annega il mio tormento,
allor in esso m’immergo per sfociar
nell’infinito ciclo della vita.
Odo il vento soffiar tra i rami,
le foglie danzar ad ogni folata,
ma fedeli al ramo che non fiacca.
Come un canto soave si perde
quel fischio tra campagne e colli.
In ciel luna che fai?
Dimmi che vedi
oh pallida luna
figlia d’una madre maggiore
che a se ti lega
prima d’ogni altra ragione.
Lì, nei tuoi silenzi,
nelle tue sterili lande
il secolo insegue il secolo
sin dalla prima creanza.
Nel buio, nel freddo
voi stelle belle
della sera al sol calante sussurrate,
fiamme vive eppur lontane,
v’unite in gruppi, in scie
di foco,
per esser men sole.
Vola il pensier mio,
a quelle foreste tra un luccichio
del sol tra fitto rameggio,
ombre senza calore,
il rumor serpeggia
in un arcano canto.
Deserti senza vita, senza pace,
ne la quiete del fresco meriggio.
Una luce abbacinante
che di duna in duna si riparte.
La morte vince e suona
il monito che è pur matrigna
la madre buona.
Ci fiacchi d’ogni male
che la carne rode!
Oh madre santa prometti
quello che alla nascita s’auapica?
V’è dunque l’inganno
che la spe’ falla?
Noi più piccoli figli tuoi
siam conti della tua grazia?
Eppur magione, natura,
mia e infinite anime che in te
albergan quanti lingua non può numerare.
Dona quinci il sollievo che non siamo
pagliuzza in una bufera,
ma abbiano certe radici nella terra.
Pria che sorella morte venga e miete
le sue messi, lascia goder dei tuoi doni,
non far che il verno ci inaridisca come fil d’esil erba…
poco io chiedo un clivio, che sia adorno
di cipressi ove dormire l’eterno sonno
che ciascun attende
Autore: Corrado Cioci