Come un fiore reciso catullo

Era la notte più fredda che Ester avesse mai trascorso, eppure era estate. Una notte gelida di affetto per una delle tante ragazze israeliane travolte nel ciclone della violenza. Era la sera dello Shabbat e per le strade di Gerusalemme, tristi e malinconiche, già si poteva sentire il profumo avvolgente del Tershi di patate, che il giorno dopo, fumante, sarebbe stato servito in tavola. Da due settimane Ester non osservava le usanze religiose e accompagnava la giornata del sabato con occhi diversi, stanchi, che non trapelavano emozioni, se non quelle della rassegnazione. Si dice che la notte porti consiglio, ma gli unici frutti di quella notte furono i troppi pensieri che squarciavano la tranquillità di una donna che, per proteggersi dal mondo, leggeva Kafka nell’angolo della sua stanza. Da quel fatidico giorno Ester non era più se stessa.

La cosa più buffa è, che a cambiarle la vita, fu una vecchia radio del ’60. Una radio clandestina, usata per far sì che i due popoli più malvoluti di tutti i tempi, comunicassero. Una radio che Ester, da brava giornalista, ascoltava tutte le sere per scovare un minimo segnale, il più piccolo dettaglio, che le permettesse di sperare ancora che le troppe angherie tra islamici ed ebrei potessero finire.

Era una sera d’inizio agosto, il cielo era trapuntato di stelle ed un vento leggero e carezzevole spostava i lunghi capelli neri di Ester. Stava percorrendo un buio e breve scorcio di Gerusalemme con la voglia ed il desiderio di arrivare in quel piccolo scantinato in cui si percepiva l’odore del vuoto, dell’abbandono. Era lì che, tutte le sere, ragazzi e ragazze ebree si riunivano per prestare ascolto a tanti ragazzi come loro, dall’altra parte del muro. Si riunivano per offrire il loro tempo ad una guerra spietata che causava, giorno dopo giorno, sofferenze. Quella sera non fu una sera qualsiasi, da quella vecchia radio non uscì solo dolore. Ester sentì delle sensazioni diverse, sentì una voce calda, che le ispirava fiducia. Una fiducia che nessuno le aveva mai dato, ma che in quella voce trovava in maniera quasi fraterna. È molto difficile fare il proprio mestiere quando si è travolti dalle emozioni. Ester seguiva a stento il discorso di quella voce anonima, mai sentita. Lei ascoltava il suo cuore, quel che il suo cuore diceva appena dalla radio uscivano quelle parole così travolgenti. Non capiva cosa le stesse accadendo, era come se tutte le poesie lette finora, su un amore mai vissuto, avessero preso vita. Come si può essere trasportati in un mondo di emozioni da una vecchia radio o da una voce sconosciuta? Ester si vergognava di tutto ciò. Era intimidita a tal punto da non far trasparire nulla di quel che percepiva. Quella sensazione così forte che non riusciva ad essere spiegata a parole, le appariva talmente ridicola che la teneva chiusa in se stessa, come per proteggerla.

Erano passate due settimane e il ricordo di quella sera uccideva questa giovane donna. I suoi pensieri la trasportavano dentro quella voce che dopo quel giorno non risentì mai più.

Che strano.

Dicono che il tempo curi ogni ferita, ogni tristezza, dolore. Ester capì che il tempo non è altro che una bella presa in giro. Lui non cura, non guarisce. A volte allevia, a volte scava dentro la ferita stessa come per far sì che quel dolore non cessi mai di esistere. Il tempo passava, ma nulla era cambiato. L’umore di Ester era immutato, fermo. Quel pensiero era invincibile ed ogni giorno strappava un pezzo del suo cuore.

Stava arrivando settembre e con settembre l’autunno e con l’autunno l’inverno ed Ester, come le stagioni, diventava sempre più fredda, più rigida e malinconica. La soluzione c’era, esisteva una cura per tali mali, ma lei faceva finta di non conoscerla, come se avesse paura di imbattersi in essa. Come se fosse intimorita dalle conseguenze che essa poteva scaturire. L’unico modo per abbattere questo continuo pensiero era la ricerca. La ricerca della voce misteriosa. Dell’uomo dal volto ignoto che non aveva conquistato Ester, bensì il suo cuore. La sua parte più importante e difficile da attirare a sé, quella più complessa da manovrare. Trovare quell’uomo era l’unico modo che, in quel momento, potesse permettere ad Ester di essere felice. Felice di una gioia diversa dalle altre, di una gioia più forte, perché attesa, desiderata.

Stava arrivando Natale, ma Ester, ancora soggiogata dalla misteriosa voce, non pensava ad altro. A Gerusalemme folle gremite di uomini e donne riempivano le strade, i profumi e le luci del tramonto incitavano alla spensieratezza e alla tranquillità. Erano in atto quei pochi e miserabili momenti di quiete tra crudeltà e violenze che Ester avrebbe dovuto vivere come tutti gli anni, insieme alla sua famiglia, ai suoi amici e ai suoi libri, compagni di mille avventure. Buffo tutto questo, quasi ridicolo. Non si può far sì che il proprio umore dipenda da altre persone, perlopiù se sconosciute.

Ester camminava. Così. Senza una meta. Cercando qualcosa di inesistente, di fittizio. Un qualcosa che le avrebbe permesso di essere di nuovo se stessa, quella ragazza sensibile, ma al contempo combattiva, astuta. Una roccia contro gli ostacoli della vita. Una roccia contro la vita stessa che le aveva sempre reso difficoltoso il cammino e che anche ora le impediva di essere quel che era, senza freni e inibizioni. Essere se stessi è meraviglioso, significa essere unici, distinguersi dal mondo. Ecco. Il mondo. Ester un po’ lo odiava. Odiava coloro che le avevano permesso di far simili considerazioni. Coloro che l’avevano incitata ad allontanarsi da esso. Odiava le guerre, le violenze, il qualunquismo, l’indifferenza. Forse, odiava i cancri del mondo e coloro che contribuiscono a farli nascere e al contempo a non farli morire. Per Ester uno dei modi migliori per purificare la mente, era la lettura. Le piaceva la poesia. Nazim Hikmet, William Blake, Gibran. I suoi più grandi maestri di vita, l’aspettavano, quando ne aveva bisogno, in una piccola biblioteca adibita a caffetteria, quei piccoli posti in cui si legge e al contempo si ascolta Chet Baker o Janis Joplin. Uno di quei luoghi in cui l’anima si può rigenerare senza distrazioni. Senza che il mondo esterno influisca su di essa. Lei la chiamava “casa della tranquillità”, si sentiva a casa quand’era lì. Una casa ancor più speciale e confortevole della sua, una casa dove nasceva una pace interiore, un benessere con se stessa, che solo della buona musica, un buon caffè ed un libro potevano creare. A Gerusalemme pioveva, era il 23 dicembre e c’era un’ aria umida e a tratti soffocante. Ester, accarezzata dalla pioggia, continuava a camminare sempre più velocemente per arrivare nel suo angolo di paradiso. Il temporale offuscava i colori, i profumi, le strade. Ma non la mente di Ester. Lei con la pioggia, stranamente, era più felice. Rilassata. Finalmente i suoi occhi cobalto, ormai diventati grigi, potevano scorgere la caffetteria tanto amata. Entrò. Come se quel posto le ispirasse fiducia e calore. Sedette sulla sedia offertale dal proprietario, Giosuè, suo amico da sempre, e immediatamente si rifugiò nel suo mondo. I libri. Quel giorno le andava di leggere Paul Èluard, un poeta surrealista, sognante. Un poeta che lasciava spazio alle utopie, alle ambizioni, denigrando tutto ciò che potesse intralciarle. La guerra, la violenza, la crudeltà. Le andava di leggerlo perché ora, anche se buffa, la sua ambizione più grande era scovare colui che le aveva incantato il cuore. Che lo aveva imprigionato, legato, straziato. Quella voce ancora ignota, ma tanto tanto vicina. Mentre leggeva, chiese a Giosuè di portarle il suo solito caffè. Nero con cardamono. Lo adorava. Il giradischi d’epoca, conservato con estrema cura e risolutezza, quel giorno commemorava la grande Betty Carter. Beware my heart. Che meraviglia. Ester adorava quella voce. Quelle note le aveva nel sangue, anche se distanti dalla sua cultura. Tutto era perfetto. Forse quasi perfetto. Ad un tratto il rumore della pioggia si intesificò. Tutto era avvolto da una nube grigia e malinconica. La porta, d’improvviso, scricchiolò. E tra la gente che si affrettava a tornare a casa, un uomo entrò nel locale. Non era ebreo. Era di carnagione scura e il verde dei suoi occhi brillava di una lucentezza inaudita. Si avvicinò al bancone e ordinò un caffè. Nero con cardamono. Come piaceva ad Ester. Appena parlò, Ester diventò pietra. Un brivido le salì su per la schiena. Rimase immobile al suono di quella voce. Le venne in mente quel giorno d’agosto. Quel giorno in cui la vita anonima di una semplice ragazza, cambiò. Era sicura. La voce di quell’uomo era la stessa che uscì dalla radio. Ad un tratto Ester si sentì morire. Al contempo si sentì viva. Non capiva cosa le stesse accadendo, il suo animo era completamente offuscato da mille emozioni. Gioia, sorpresa. Aveva perso la concezione del tempo e della realtà. Il suo sogno più profondo si stava realizzando ed Ester non riusciva a credere alle sue orecchie. Ad un tratto la sua mente danzò tra milioni di riflessioni. Lei, così sognatrice, ma al allo stesso tempo realista non credeva al destino, ma davanti a tali manifestazioni non poteva rimanere indifferente. Capì che la vita è una sorpresa continua, una perenne lotta alla felicità. Una corsa verso una gioia finita, momentanea, ma pur sempre una gioia e lei non poteva perdere il treno che le avrebbe permesso di raggiungerla. Ad un tratto, con risolutezza, decise di avvicinarsi all’ uomo. Nemmeno Ester riusciva a capire da dove potesse provenire tale audacia. Forse dalla troppa curiosità. Quella non le era mai mancata. Andò al bancone e, ordinando un altro caffè, prese coraggio e parlo all’uomo: “Che tempaccio oggi, di solito la gioia del Natale mi fa dimenticare la tristezza di questi anni, ma oggi la sento nella maniera più assoluta”. L’uomo si girò di scatto. E i suoi occhi verdi simili allo smeraldo incontrarono lo sguardo tremante di Ester. Rimase ad osservarla esterrefatto, immobile per alcuni secondi e non le rispose. Ester, pentita della sua scelta, bevve il caffè e si diresse verso il suo tavolo. Ad un tratto qualcuno la chiamò da dietro: “Signorina, signorina. Scusi” Ester riconobbe di nuovo quella voce. Ora tutto si era trasformato in certezza. Si girò. E si diresse verso il bancone. Pensava di vivere un sogno. L’uomo parlò di nuovo: “Scusi, lei è una giornalista?”. Anche lui aveva sentito la voce di Ester attraverso la radio e dai quei pochi minuti in cui Ester parlò, in quella lontana sera d’agosto, la sua vita era cambiata. Tutto coincideva. Tutto era perfetto. Complementare. Ester rispose di si. Era una giornalista e come non mai, in quel momento, esserlo la fece sentire la donna più felice del mondo. Da lì i due parlarono per ore ed ore. Della loro storia. Della coincidenza. Del destino. Della vita. Che bell’argomento la vita. Non smette mai di stupirti.

Lui si chiamava Alì, aveva pochi anni in più di Ester, era alto, colto e aveva gli stessi suoi interessi. Adorava i poeti francesi e spagnoli. Amava il suo mestiere e odiava tutto ciò che includesse l’odio. Erano uguali. Avevano le stesse ambizioni, gli stessi sogni. Entrambi erano giornalisti, lui scriveva anche libri. Racconti su quella guerra che da anni soffocava gli islamici e gli ebrei. Era tutto troppo bello da non sembrar reale. Uscirono dal locale molto tardi, entrambi esterrefatti dai poteri del fato. Alì decise di invitarla a cena ed Ester, contenta più che mai, accettò. Scelsero il ristorante. Meraviglioso. A due passi dal bar di Giosuè. Un uomo al pianoforte somigliava al grande Frank Sinatra. Le luci delle candele miste a quelle dei faretti, che illuminavano bellissimi quadri, ricordavano il tramonto. Quella sera, per Ester, fu la più bella della sua vita. Lei e Alì parlarono tanto e, accompagnati da buoni piatti e musica eccellente, si scambiarono la pelle. La vita. Che buffo il destino. Nietzsche diceva che il nostro destino esercita la sua influenza su di noi anche quando non ne abbiamo ancora appresa la natura, è verissimo. Ester non credeva nel fato, non riconosceva in lui una potenza sovrannaturale, per questo esso ha voluto darle conferma della sua esistenza. Uscirono dal locale e tra chiacchiere e risate, tutto sembrava perfetto. Era molto tardi e Gerusalemme vista da lontano sembrava un’oasi di pace. Ester, in fretta, torno’ a casa felice di quello che le era accaduto. Ancora incredula si addormentò all’improvviso, così. Come se da ora non avesse più bisogno di sognare.

Da quella sera passarono due anni e, giorno dopo giorno, Ester e Alì si innamorarono. L’amore, in un contesto del genere, diventa una virtù di pochi, una virtù che Ester ed Alì dovevano conservare gelosamente. Con il tempo il loro amore crebbe sepre più fino a diventare ineluttabile, invincibile. Andarono a vivere insieme. Si amarono nonostante tutto. Nonostante la triste consapevolezza di essere diversi. Diversi a causa di un’ineguaglianza fittizia. Creata esclusivamente dalla mente umana, dalla rivalità. Una diversità letale che causa odio e morte.

Era sabato mattina ed Ester, come tutti i sabati, andò in sinagoga. Pregava per far sì che l’amore tra lei ed Alì non cessasse mai di esistere, invocava Jahvè affinchè tutto l’odio in cui era vissuta si tramutasse in amore. Anche Alì, quella mattina, decise di andare in Moschea. Devoto ad Allah, ma non al fondamentalismo, lo invocava quando ne sentiva il bisogno. Quella mattina voleva essere ascoltato, compreso e le sue preghiere, anche se rivolte ad un Dio differente, erano le stesse di Ester. La città di Gerusalemme viveva continuamente nella precarietà. Tra odio e amore. Tra disperazione e felicità.

Mancava un quarto all’una e per le strade di Gerusalemme era inevitabile non imbattersi in profumi e luci. Per la città una grande tranquillità aleggiava con estrema bellezza. Tutto sembrava avvolto da una grande quiete, ma d’altronde i bei momenti sono quelli che durano di meno, quelli che passano in fretta. All’improvviso un boato risuonò per tutta la città e una nube nera avvolse il cielo con durezza. Tutto era compiuto. Era in atto un attentato alla Porta di Damasco. Atroci pianti di dolore echeggiavano verso l’infinito. Disperazione. Confusione. Gerusalemme stava morendo pian piano. La sua anima veniva lacerata ogni giorno di più. La sua storia veniva distrutta, la sua gente torturata, straziata. Nulla aveva più senso. Nemmeno un Dio può vincere simili barbarie. Solo il più crudele degli uomini vorrebbe che si uccidesse in proprio onore e nel proprio nome e Dio non dovrebbe essere tale da assecondare ciò. Se c’è un Dio, lì dietro le stelle, domina solamente amore. A lui non appartiene nè odio, nè violenza.

Ester e Alì si salvarono. Fortunatamente non si trovavano in quel luogo in quell’istante. Il destino, Allah o Jahvè li preservò dalla crudeltà, ma se c’è divinità in grado di creare il nostro mondo, la nostra vita e le nostre emozioni, perchè non esiste divinità capace di distruggere ciò che nel mondo c’è di negativo? Questa era la domanda che, da sempre, si poneva Ester. Quel giorno capì che la religione non è altro che la proiezione delle nostre paure, delle nostre insicurezze e che è stata creata per far sì che l’uomo potesse trovare in essa delle risposte o magari delle giustificazioni ai propri errori. Ester da quel giorno comprese a pieno il mondo in cui viveva. Si rese conto che, ormai, la religione è il baluardo e il pretesto per far sì che l’indivisualismo e il capitalismo acquistino sempre più potere. Lei non voleva essere parte integrante di questa continua lotta basata sull’arrivismo, nè desiderava essere oppressa da essa e dal suo mutato e squallido sistema. Lei continuava a credere nel Dio che ha creato gli uomini, non nel Dio che gli uomini hanno creato. La religione era diventata il miglior strumento per giustificare l’odio e visto che Ester voleva che nella sua vita regnasse la dignità e il bene, decise di vivere all’insegna dell’amore, poichè esso non ha bisogno di giustificazioni.

 

Una settimana dopo lei ed Alì si trasferirono a Londra. Lei continuò il suo lavoro e scrisse un libro autobiografico, lui pubblicò un romanzo sulla loro storia d’amore. Non fuggirono da Gerusalemme per viltà, fuggirono perchè quei luoghi sarebbero riusciti a comprimere il loro amore fino a farlo svanire nel vuoto delle sere d’inverno. Ora, la loro gioia più grande era sapere che ognuno, nel bene e nel male, ci sarebbe stato. Si sposarono ed Ester poco dopo diede alla luce una splendida bambina. La chiamarono Asia: “dove sorge il sole”, affinchè in essa ci fosse per sempre stato il sole. Un sole che le avrebbe portato luce di serenità, di bontà. Luci che i due popoli che l’avevano messa al mondo avevano visto, molto spesso, trasformarsi in ombre. Asia ebbe una vita felice, andava spesso con i suoi genitori nella sua terra d’origine. Ester ed Alì non dimenticarono le loro radici. È grazie a quella terra e alla sofferenza vissuta che hanno potuto godersi ancor di più la felicità. Ciò che non uccide, fortifica. Quella brutale guerra non li uccise, lì straziò, ma al contempo lì rese invincibili. Ester e Alì sono stati il re e la regina di una partita a scacchi vinta dal destino. Una partita da cui sono usciti stremati, ma allo stesso tempo vincitori. L’amore vince tutto, anche la più aspra battaglia contro la vita stessa. L’amore non ha limite, lui, non ha mai conosciuto misura. Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio, ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno ed Ester ed Alì, questo, l’hanno saputo fare benissimo. Loro non hanno imparato a sopravvivere alla tempesta, ma a ballare sotto la pioggia.

 

Asia Tamburrini

Quest’elaborato è nato in un giorno di pioggia. Nel quale le nuvole offuscavano il sole e rendevano tutto triste e malinconico. È nato dalla noia e dalla brama di riportare le tante idee che sovrastano la mente quando la smania della scrittura e il desiderio di far nascere bellezza diventa inespugnabile. È una storia semplice, una storia che riporta gli odori e i sapori di quel giorno di pioggia. Apparentemente futile, ma imprescendibile. Perché l’arte nasce, spesso, dalla poca voglia che si ha di non far passare il tempo e dal coraggio di provare a fermarlo. Trasformandolo in cibo per l’anima. In poesia, in storie quindi semplicemente im bellezza.