“Il brigante”
L’ombra nera di Sicilia tace!
Montava nel sol di novembre lo scorpione, e il mese era cadente.
Ei fu gran sicario, ma inver ai posteri
l’estrema sentenza.
All’ombra degli aranci in fior
nella bionda conca,
crescea il monello,
correndo il verginel allo spirar
di grecale, sotto lo sguardo
del monte nevoso,
che rotola lingue di fuoco
di caliginoso fumo.
Fu l’uomo, ma del ben non aveva
vista se non del soldo, e di conquista.
Vita vissuta senza
pietà che a rimorso lo piega.
Del buon Federico la terra calpesta
ma non per saper o conoscenza,
sol rotto a ogni nefandezze.
Per ogni lacrima che trinacria
versa, lui il capo non piega a vergognoso
viso più ode il Tintinnio dell’oro che a
Gaudio lo alletta.
Quale onor cinse la gloria e tempia?
Ove la patria la fede l’amore?
Lui al sacro patto che l’uomo governa,
alieno, già era aperto e dato il braccio
ad Astaroth, nemico eterno che la mente
porta a follia e perverso.
Non a Michele e cherubini, ma a demoni
e suoi amici s’era converto
la dolce spiaggia di Corleone, che dorme
e piange il figlio che del sangue s’era fatto sazio, lava le piaghe
e il veleno sulla bianca veste d’Italia.
Nella notte vanno placide quelle onde
lontano ma il dolor sale con il vento
che fischia a pel del mediterraneo.
Anime perse, senza più dimora senza
salvezza perché la luce in lor non più
Alberga.
Quanto amaro seme s’era sparso
per la terra del fu normanno.
Le mura di Palermo ancor ricorda
la gloria del califfato.
Come a triste la bora soffia
e agita le vele
tu, vecchio, scialbo hai
mangiato l’orgoglio del
popolo sconsolato.
Polvere, grida, lamento,
questo si solleva
per tuo giogo e diletto.
Eppur fu uomo!
In lui l’altissimo
il pudore incise
per l’amor che lo preme,
al primo figlio,
e dono, per
l’universo il redentore
or non sa qual altro
male la Sicilia la sua terra calca.
Maggio del tempo mio
più bello, vide
il volto pallido dell’omicidio.
Sulla strada, l’offesa
suono al rispetto!
Due pilastri della bilancia
antica perser la vita
per inganno e ira.
Alle porte di Palermo
nel lor petti Giove spira,
per giuramento a giusta
via che mena per perigliosi
sentieri.
Nei lor pensieri
di che è viva
la fiera che in lui
s’incendia, non
si resta ma sempre incita
a sfamar ingordigia,
e non lo spaventa
il ventre grasso.
Lo sguardo mai tenne
basso ma sempre a puntare
la mira con gran Gradasso.
Come lo spada
dalle lampare
sorpreso,
già sa che la rete lo avrà
stretto, trema
per la mattanza,
non desiste
ma batte e schizza
per lacerar la maglia.
Tu feroce canaglia
braccato, fai lo stesso .
davanti il crocefisso
prega e studia il
libro,
ma inver lo spirito
guasto che il petto
stringe,
gli impedisce il giudizio!
Or finisce il tuo delitto!
Muto al silenzio della morte,
s’abbandona la stanca carne,
come ognun che vive
e sconfitto!
Al passo tra questo regno
e l’abisso se ne va
nel buio, nell’incerto.
Chi ti bussa or sulla
tua porta?
Colui che si fe’ servo sul
Golgota, infisso
o il ribelle
al padre e Cristo?
Canti di angel
al suon d’arpa
o legioni di demoni
pien di rabbia?
Questo sarà il tuo
ultimo giudizio!
La storia umana
che più non tiene
l’isola a briglia con angoscia e pena
sì spegne.
Nell’ora fatal lo spirito
lascio il corpo,
or mira,
fu tutto per orgoglio
o difetto?
Siam tanto brutti
che cechi non vediamo
lo scempio?
Già i viventi
t’han tolto lo scettro
maledicono
il tuo nome e il tuo letto.
Alla terra natia le sue spoglie
alle zolle il suo ricordo
tu nudo e spoglio
il tuo avello
vocar.
Siamo polvere
in un suolo,
quanto
potremo viver?
Fu vera vita?
O beffa del destin che si congiunge
cenere sarem
oltre questo evo
un alito di vento.
Come un camin
il legno combusto
erutta in scintille
e schegge,
così noi nulla resta
se non ossa e vesti Lese.
Saran per te le giuste pene
o sperare nella notte
che vede il giorno?
Inver le bianche porte son
serrate
pietro sulla soglia
non t’attende,
se non ti mondi
dalle malate vene.
Genuflettiti e fai ammenda
sei solo un mortale,
saran i tuoi passi
diretti al suo concento.
Per voler di colui
che i pianeti move.
Nulla teme,
non sperar nell’inghippo.
Come il giunco obbediente
prende piega
e da duro si modella,
al luminoso viso
chiedi pena
perché sol lui e il tuo
nocchiero.
Ti salverà dal graffio
e patimento?
Cerca il nuovo giorno,
non esser troppo fiero,
per non esser legno
schiavo delle Palago nero.
Abbraccia il disegno del gran
architetto che la morte ha sconfitto
nel nome di colui che tutto puote,
i celi sono pieni della gloria dell eterno dell infinito.
Padre benigno,
che promise di recar
nel regno che non sente
più ne freddo né gelo.
Ma ci rallegrar
coi bei raggi d’or.
Una vita vissuta tra sangue e dolore
una vita passata a seminare terrore e angherie
pur di avere tutto ne è valsa la pena?
Autore: Corrado Cioci