Cielo luminoso su piante rampicanti (immagine di copertina della poesia)

Introduzione al testo

Con questa poesia Leopardi ci comunica il suo struggente desiderio di essere amato, affermando che anche solo per un bacio si sarebbe recato persino all’inferno.

La poesia, come tutte le altre del ciclo di Aspasia, è dedicata alla sua amata (Leopardi non si dichiarò) Fanny Targioni Tozzetti.

Di seguito è riportato il testo della poesia “Consalvo” di Giacomo Leopardi, composta nell’autunno del 1832 a Firenze e facente parte del ciclo di Aspasia.

Consalvo

Presso alla fin di sua dimora in terra,
giacea Consalvo; disdegnoso un tempo
del suo destino; or già non più, che a mezzo
il quinto lustro, gli pendea sul capo
il sospirato obblio. Qual da gran tempo,
così giacea nel funeral suo giorno
dai più diletti amici in terra al alungo andar nessuno
resta a colui che della terra è schivo.
Pur gli era a fianco, da pietà condotta
a consolare il suo deserto stato,
quella che sola e sempre eragli a mente,
per divina beltà famosa Elvira;
conscia del suo poter, conscia che un guardo
suo lieto,un detto d’alcun dolce asperso,
ben mille volte ripetuto e mille
nel costante pensier, sostegno e cibo
esser solea dell’infelice amante:
benchè nulla d’amor parola udita
avess’ella da lui. Sempre in quell’alma
era del gran desio stato più forte
un sovrano timor. Così l’avea
fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.

Ma ruppe alfin la morte il nodo antico
alla sua lingua. Poiché certi i segni
sentendo di quel dì che l’uom discioglie,
lei, già mossa a partir, presa per mano,
e quella man bianchissima stringendo,
disse: tu parti, e l’ora omai ti sforza:
Elvira,addio. Non ti vedrò, ch’io creda,
un’altra volta. Or dunque addio. Ti rendo
qual maggior grazia mai delle tue cure
dar possa il labbro mio. Premio daratti
chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.

Impallidia la bella, e il petto anelo
udendo le si fea: che sempre stringe
all’uomo il cor dogliosamente, ancora
ch’estranio sia, chi si diparte e dice,
addio per sempre. E contraddir voleva,
dissimulando l’appresar del fato,
al moribondo. Ma il suo dir prevenne
quegli, e soggiunse: desiata. E molto,
come sai, ripregata a me discende,
non temuta, la morte; e lieto apparmi
questo feral mio dì. Pesami, è vero,
che te perdo per sempre. Oimè per sempre
parto da te. Mi si divide il core
in questo dir. Più non vedrò quegli occhi,
né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
non vorrai tu donarmi? Un bacio solo
in tutto il viver mio? Grazia ch’ei chiegga
non si nega a chi muor. Né già vantarmi
potrò del dono, io semispento, a cui
straniera man le labbra oggi fra poco
eternamente chiuderà. Ciò detto
con un sospiro, all’adorata destra
le fredde labbra supplicando affisse.

Stette sospesa e pensierosa in atto
la bellissima donna; e fiso il guardo,
di mille vezzi afavillante, in quello
tenea dell’infelice, ove l’estrema
lacrima rilucea. Nè dielle il core
di sprezzar la dimanda, e il mesto addio
rinacerbir col niego; anzi la vinse
misericordia dei ben noti ardori.
E quel volto celeste, e quella bocca,
già tanto desiata, e per molt’anni
argomento di sogno e di sospiro,
dolcemente appressando al volto afflitto
e scolorato dal mortale affanno,
più baci e più, tutta benigna e in vista
d’alta pietà, su le convulse labbra
del trepido, rapido amante impresse.

Che divenisti allor? Quali appariro
vita, morte, sventura agli occhi tuoi,
fuggitivo Consalvo? Egli la mano,
ch’ancor tenea, della diletta Elvira
postasi al cor, che gli ultimi battea
palpiti della morte e dell’amore,
oh, disse, Elvira, Elvira mia! Ben sono
in su la terra ancor; ben quelle labbra
fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!
Ahi vision d’estinto, o sogno, o casa
incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,
quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi
non ti fu l’amor mio per alcun tempo;
non a te, non altrui; che non si cela
vero amore alla terra. Assai palese
agli atti, al voto sbigottito, agli occhi,
ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre
muto sarebbe l’infinito affetto
che governa il cor mio, se non l’avesse
fatto ardito il morir. Morrò contento
del mio destino ormai, né più mi dolgo
ch’aprii le luci al dì. Non vissi indarno,
poscia che quella bocca alla mia bocca
premer fu dato. Anzi felice estimo
la sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
amore e morte. All’una il ciel mi guida
in sul fior dell’età; assai
fortunato mi tengo. Ah, se una volta,
solo una volta il lungo amor quieto
e pago avessi tu, fora la terra
fatta quindi per sempre un paradiso
ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,
l’abborrita vecchiezza, avrei sofferto
con riposato cor:che a sostenerla
basta sempre il rimembar sarebbe
d’un solo istante, e il dir: felice io fui
sovra tutti i felici. Ahi, ma contanto
esser beato non consente il cielo
a natura terrena. Amat tant’oltre
non è dato con gioia. E ben per patto
in poter del carnefice ai flagelli,
alle ruote, alle faci ito volando
sarei dalle tue braccia; e ben disceso
ne paventato sempiterno scempio.

O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra
gl’immortali beato, a cui tu schiuda
il sorriso d’amor! Felice appresso
chi per te sparga con la vita il sangue!
Lice, lice al mortal, non è già sogno
come stimai gran tempo, ahi lice in terra
provar felicità. Ciò seppi il giorno
che fiso io ti mirai. Ben per mia morte
questo m’accadde. E non però quel giorno
con certo cor giammai, fra tante ambasce,
quel fiero giorno biasimar sostenni.

Or tu vivi beata, e il mondo abbella,
Elvira, col tuo sembiante. Alcuno
non l’amerà quant’io l’amai. Non nasce
un altrettale amor. Quanto, deh quanto
dal misero Consalvo in si gran tempo
chiamata fosti, e lamentata, e pianta!
Come al nome d’Elvira, in cor gelando,
impallidir; come tremar son uso
all’amaro calcar della tua soglia,
a quella voce angelica, all’aspetto
di quella fronte, io ch’al morir non tremo!
Ma la lena e la vita or vengon meno
agli accenti d’amor. Passato è il tempo,
né questo di rimemorar m’è dato.
Elvira, addio. Con la vital favilla
la tua diletta immagine si parte
dal mio cor finalmente. Addio. Se grave
non ti fu quest’affetto, al mio feretro
dimani all’annottar manda un sospiro.

Tacque: né molto andò, che a lui col suono
mancò lo spirito; e innanzi sera il primo
suo di felicità gli fuggia dal guardo.


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