Ai figli dei miei figli

  • Autrice del libro: Sindiwe Magona
  • Casa editrice: Nutrimenti,
  • Data pubblicazione: 2006
  • Pagine: 253

La constatazione immediata che si avverte già nel titolo dell’opera e si concretizza successivamente, procedendo nella lettura, è quella di trovarsi di fronte alla testimonianza di una nonna, o meglio all’autobiografia di una bisnonna che si rivolge ad una pronipote non ancora nata, ma già “contemplata” nella sua mente di donna matura. La sua preoccupazione maggiore è quella di far conoscere alla sua discendenza futura le tappe fondamentali che hanno contrassegnato la sua vita, affinché essa non venga dimenticata e rischi di concludersi con la morte della medesima.

Sindiwe nasce in Sudafrica nel 1943, nel villaggio di Gungululu, a circa 18 Km. da Umtata,città situata nella Provincia del Capo, quando il Sudafrica era ancora una colonia britannica ed, escludendo i primi cinque anni felici della sua infanzia, si trova costretta a vivere e a subire, come altri 60 milioni di africani,quell’anomalia storica definita Apartheid. Essa prende forza e s’inasprisce a partire dal 1947, quando gli inglesi cedono la terra agli afrikaner che soppiantano la sterlina e i pennies, sostituendoli con i rand e i centesimi. I bianchi etichetteranno i neri come Cafri e, appellandosi a una pletora di leggi varie, sancite apparentemente da un parlamento a cui la gente di colore non ha preso parte e manifestando l’intento di “protezione” eserciteranno invece su quest’ultima un pesante giogo.

Sindiwe è la seconda di otto figli e la maggiore delle cinque femmine. Ricorda gli anni dell’infanzia vissuti in una famiglia matriarcale, in cui essenziali sono state le presenze della bisnonna, della nonna e del nonno materni. Più sfumata la figura del padre che, come tutti i maschi lavoratori nelle miniere, nelle fabbriche e nei vari complessi industriali viveva a Città del Capo e faceva visita alla famiglia sporadicamente.

Presso gli Amaxhosa, la popolazione di appartenenza della nostra protagonista, vigeva la vita di clan, dove è impossibile che un individuo si senta abbandonato a se stesso, perché in un mondo così configurato anche uno sconosciuto fino a un anno prima può rivelarsi un parente pronto e sollecito nell’offrire il proprio aiuto.

Sindiwe vive l’età infantile come magica, spensierata, dove le difficoltà che gli adulti devono affrontare non vengono percepite, come accade per la miseria, le differenze di classe e di razza. Lei si sente amata, nutrita, teneramente accudita, valorizzata nella responsabilità dello svolgimento di lavoretti a servizio della comunità, quali spazzare, attingere l’acqua dal fiume, raccogliere le uova, macinare il granturco, radunare al crepuscolo il bestiame nei recinti per prepararsi alla cena intorno al desco frugale e al successivo ascolto degli “iintsomi”, le fiabe raccontate da nonne o zii. Lei è incantata quando le storie riguardano orchi, giganti, grossi rettili, al pari di quelle a lieto fine con protagonisti principi, principesse, uomini o donne capitribù.

Elemento comune delle storie riguardanti i rapporti umani è il vincolo che lega i membri della comunità: l’onore e il rispetto delle regole, il senso del dovere e lo spirito di sacrificio. In seguito, nel 1947, la mamma di Magona si ammala per cui sono necessari buone medicine e un ospedale, la nonna materna muore e tutta la famiglia è costretta a raggiungere Città del Capo, dove lavora il padre di Sindiwe. L’eccitazione per la grande città che pullula di case, strade ed auto e il miraggio di potersi concedere una vita migliore sfumano quando il treno su cui viaggiano si addentra nella campagna e giunge a Blaauvlei, il quartiere nero dove le baraccopoli si estendono a perdita d’occhio. Queste ultime sono costituite da lastre di lamiera ondulata di zinco, rivestite all’interno di cartone, su cui é incollata carta di giornale.

Qui Sindiwe conosce la paura, avvertita attraverso le frequenti irruzioni della polizia condotte allo scopo di scovare alcolici, la cui vendita è proibita agli africani. Inizia a frequentare la scuola e si rivela, sull’esempio del fratello maggiore Jongi, un’allieva brillante in grado addirittura di saltare una classe, dalla seconda alla quarta, di essere lodata dall’insegnante e di assumere un nome inglese, Cynthia.

Magona illustra alla nipote lo strano rito d’iniziazione a cui è stata sottoposta al suo ingresso nell’età adulta. Viene comprata dal padre una vitella da latte le cui carni sono offerte a parenti e vicini di casa, in occasione dell’evento di essere diventata una donna. Intorno al collo di Sindiwe viene posta una collana fatta con i peli del manto della vitella macellata, mentre alla vita, ai polsi e intorno alla testa vengono collocate strisce di pelle dell’animale, allo scopo di proteggere la futura fertilità della fanciulla.

Ormai Sindiwe frequenta la scuola secondaria, la Long High School, l’unica accessibile agli studenti africani e sottolinea come l’uso delle biblioteche pubbliche venga interdetto al settore africano, così come le apparecchiature moderne (elettricità, macchine da cucire) vengano riservate alle scuole dei bianchi e dei meticci. Completati i tre anni di scuola media, Sindiwe inizia a seguire le lezioni preparatorie per diventare insegnante elementare, dove impara a creare sussidi didattici quali mappe, diagrammi, sentendosi ormai matura e pronta ad accedere alla professione.

Arriviamo al 1961, anno in cui Magona, intrapresa la via dell’insegnamento, incontra alla fermata dell’autobus Luthando, un giovane bello, prestante, che la circonda di attenzioni, del quale si innamora follemente, accettato anche dai suoi genitori. Magona sperimenta l’enorme discrepanza tra il tirocinio di preparazione all’insegnamento e la realtà di una classe povera, a cui mancano i testi, il materiale scolastico e visualizza in modo tangibile le discriminazioni fra l’istruzione del bambino africano e quello bianco. Le bambine africane avrebbero imparato ad accettare il loro posto nella vita che era quello di servire i padroni, uomini, donne e bambini bianchi e a soddisfare l’economia degli stessi.

L’autrice riferisce alla nipote queste parole: “La parola chiave era servizio, non certo partecipazione e men che mai accesso”. Oltre la fatica dell’insegnamento su cui incideva negativamente il problema del sovraffollamento delle classi che non consentiva né di far emergere i migliori, né di offrire la giusta considerazione agli allievi più deboli, Magona scopre che lo stipendio degli insegnanti africani è veramente esiguo e non premia l’impegno e il sacrificio profusi nello studio.

Nel luglio del 1962, dopo soli quattro mesi di insegnamento Sindiwe si accorge di essere incinta; nonostante le ristrettezze economiche, la bambina è in buona salute e viene allattata al seno; Sindiwe, non riuscendo a trovare un lavoro come infermiera o ambulante ripiega sul lavoro domestico nelle case ricche dei bianchi, dove sperimenterà la vasta gamma delle relazioni umane.

Conoscerà la solidarietà delle donne di colore come lei, l’arroganza e la supponenza delle “padrone” bianche, le attenzioni “erotiche” dei maschi bianchi alla ricerca di profitto e appagamento dal suo corpo, sul quale pensano di arrogare ogni diritto.

Gli abbandoni che ha sperimentato, però, danno a Sindiwe la consapevolezza di essere sì una donna sola, ma anche libera, responsabile della crescita dei suoi tre bambini che guardano a lei come punto di riferimento. Mi ha colpito molto la dedica iniziale del libro in cui Sindiwe scrive:” A Thembeka, Thokozile e Sandile, i miei figli che mi hanno allevata”. È un ribaltamento della realtà: normalmente sono le madri ad allevare i figli e non viceversa, ma con quest’espressione Magona vuole sottolineare come la sua “crescita materna” sia avvenuta gradualmente grazie a loro, “tre paia d’occhi che ti guardano, che dipendono solo da te, anche se tu non hai mezzi su cui contare”.

Da qui scaturisce l’ottimismo finale che porta Sindiwe a considerarsi fortunata, viva, sicura di essere all’altezza del suo compito, testimoniato dalle parole stesse con cui l’autrice conclude la sua autobiografia.

Recensione del libro scritta da Tiziana Besio